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A Scuola del Vangelo: Romero beato

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Messaggio  ire Lun Giu 15, 2015 7:37 pm

grazie...auguri
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Messaggio  °LadyOscar° Dom Giu 14, 2015 1:06 pm

non l'ho letta tutta.... ma per quel poco che ho letto ( la metà) è davvero interessante e bella... grazie Wink

°LadyOscar°

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Messaggio  °LadyOscar° Dom Giu 14, 2015 12:23 pm

certe cose non le pubblicare solo qui!

°LadyOscar°

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Messaggio  ire Sab Giu 06, 2015 12:09 am

«Non considero mons. Romero semplicemente un maestro e un martire che testimonia la giustizia per i poveri, ma un maestro che ha qualcosa di fondamentale, vitale e vivificante da dirci su ciò e su chi noi siamo come Chiesa, come Chiese che cercano di essere unite più pienamente. La domanda che egli ci pone è questa: se noi siamo veramente uniti solo quando siamo più profondamente uniti con Cristo, allora c’è un solo luogo da cui partire nel nostro cammino verso l’unità ed è imparare a essere uniti con il grido, il bisogno e l’agenda di coloro che sono maggiormente a rischio, un solo luogo dove è appropriato andare e condividere questo rischio». Il vescovo anglicano Rowan Williams, che è stato arcivescovo di Canterbury e primate della Chiesa anglicana dal 2002 al 2012, ha offerto un ritratto dell’arcivescovo Oscar Arnulfo Romero che – a partire dalla sua lettura teologica dell’opzione preferenziale per i poveri – proietta la necessità di questa stessa visione sul piano ecumenico (Birmingham, conferenza annuale dell’Archbishop Romero Trust, 12 dicembre 2014). Lo proponiamo nell’imminenza della canonizzazione di mons. Romero nel Salvador, il 23 maggio 2015.
Stampa (15.12.2014) da sito web www.romerotrust.org.uk, nostra traduzione dall’inglese.
è un grande onore per me essere stato invitato a parlare dell’arcivescovo Romero e a farlo qui questa sera. Mi unisco alle preghiere di coloro che l’anno prossimo potranno vedere riconosciuto l’arcivescovo Romero per quello che indubbiamente è: uno dei maggiori doni di Dio a tutto il popolo di Dio negli ultimi decenni, un uomo la cui testimonianza e il cui insegnamento sono un lascito per tutti i cristiani del mondo.
Il grande teologo gesuita Jon Sobrino, amico e collaboratore di Romero, scrisse che l’arcivescovo fu «un evento teologico». Che cosa significa affermare che la vita e la morte di qualcuno, o tutta la personalità di qualcuno, costituiscono «un evento teologico»? Sviluppando questo tema, Sobrino spiega un po’ ciò che intende dire. Un evento teologico è un evento nel quale si realizza una sorta di avvicinamento fra la parola di Dio e la parola, o a volte il grido silenzioso, dei sofferenti. La teologia, lungi dall’essere un complesso di speculazioni umane su Dio, è sommamente autentica quando diventa in qualche modo l’espressione stessa di Dio. Non l’espressione di Dio trasmessa dall’alto, come piacerebbe a teologi e vescovi, ma la parola di Dio espressa insieme a coloro e attraverso coloro che condividono la sofferenza di Cristo e la sua gloria.
Scrive Sobrino: «Le grida di tutto un popolo erano trasformate nella preghiera che l’arcivescovo Romero offriva a Dio». E, ascoltando e dando voce a quelle grida, alla presenza di Dio, Romero diventa un evento teologico: la parola di Dio e le grida dei sofferenti sono strettamente legati.
È un quadro che, in realtà, ha radici lontane nel pensiero cristiano. Alla fine del IV secolo, sant’Agostino nei suoi grandi discorsi sui salmi afferma che uno dei grandi misteri dell’incarnazione è che Cristo parla per l’umanità che soffre, dubita e lotta. E quando nei salmi udiamo la voce della sofferenza e della lotta, come spesso facciamo, dovremmo ricordare che i salmi sono le preghiere di Cristo incarnato: Dio in Cristo fa sue le grida della nostra sofferenza e della nostra oscurità. In questo senso agostiniano l’arcivescovo Romero è «un evento teologico».
L’angoscia umana, la solitudine umana, la sofferenza della terribile oppressione viene collocata in un nuovo contesto, in un mondo nuovo e divino, quando è immersa in Cristo dalla compassione cristica e dal servizio del corpo di Cristo, e dai servi di Cristo e dai profeti di Cristo in quel corpo.
L’arcivescovo Romero ha dato voce alle grida dei poveri, e questo tema ritorna molto spesso nei suoi scritti, nelle sue riflessioni e nelle sue omelie. Egli credeva che una componente centrale del suo ministero fosse proprio questa: dare voce a coloro che non avevano voce. Ma naturalmente il suo dar voce alle grida dei poveri era ben più di una semplice questione di parole o di informazioni sulla loro situazione. Egli dava voce all’esperienza dei poveri assumendo i rischi insieme a loro. Ancora una volta, come nel caso di Cristo, il farsi carico delle voci, delle grida, della sofferenza, diventa un rischio, e occasione di sofferenza personale. Cristo non ripete semplicemente le nostre parole umane a Dio, come se fosse una terza persona. Egli grida dal rischio e dalla sofferenza che abbraccia personalmente. Lo stesso faceva mons. Romero.
L’arcivescovo Romero credeva che se la Chiesa voleva essere dove era Dio, doveva essere con i poveri. La vigilia di Natale del 1979 scrive: «Oggi è ora di cercare questo bambino Gesù, ma non cerchiamolo nelle belle immagini delle composizioni natalizie; cerchiamolo piuttosto fra i bambini malnutriti che questa sera sono andati a letto senza avere nulla da mangiare. Cerchiamolo fra i bambini poveri che vendono i giornali e dormono negli androni avvolti nel giornale di oggi. Cerchiamolo nel bambino lustrascarpe che forse ha guadagnato abbastanza per comprare un regalino per la mamma. Cerchiamolo nel bambino che vende il giornale e viene duramente sgridato dal patrigno o dalla matrigna per non averne venduti abbastanza. Come è triste la storia di questi bambini. Ma Gesù assume tutto questo stanotte».
Dov’è Dio? Dio è con i più vulnerabili. Questo dovrebbe essere un assioma per ogni cristiano e ogni cristiana che legge la Bibbia. E questo, naturalmente, significa che l’unità della Chiesa, se è vera unità con Gesù Cristo, è strettamente legata al suo essere dove è Cristo. Per Romero, l’unità della Chiesa è strettamente legata all’essere unita con Cristo attraverso la solidarietà con i poveri. La vocazione del credente è quella di essere dove è Cristo e, come Cristo, di dare voce al grido dei sofferenti e dei diseredati. Parlare con Cristo e per Cristo, parlare da dove si trova Cristo, è parlare dal luogo degli spogliati e degli emarginati.
Il motto episcopale dell’arcivescovo Romero era Sentire cum Ecclesia. A volte, l’espressione è stata usata per confermare un’affermazione piuttosto irragionevole di qualsiasi cosa la Chiesa dicesse in un determinato momento attraverso i suoi funzionari. Per l’arcivescovo Romero il suo significato era molto diverso. Per lui, sentire cum Ecclesia è pensare a partire dalla prospettiva dei diseredati e con la loro prospettiva. Pensare da dove è Cristo. Riprendendo un’espressione del grande pensatore cattolico contemporaneo James Alison, è imparare ad avere l’intelligenza della vittima. Imparare a leggere il mondo e a vedere il mondo dal punto di vista di coloro che non hanno potere, perché questa è la prospettiva di Cristo.
Chiesa dei poveri e Chiesa dei ricchi?
Ma l’arcivescovo Romero affermava chiaramente che questo sentire con i poveri, pensare con i poveri, questa profonda solidarietà con i diseredati, era più di un altro programma di parte. Naturalmente, come si poteva prevedere, venne accusato durante la sua vita, come lo furono molti teologi della liberazione, di non proclamare la buona novella a tutti: il fatto che la Chiesa abbia un’opzione per i poveri – questo l’assunto – significa certamente che ha un’opzione contro i ricchi. Egli ebbe molto da dire su questo, molto da dire riguardo al modo in cui di fatto la Chiesa era già divisa fra ricchi e poveri. E su come l’opzione per i poveri, e il parlare a partire dall’intelligenza della vittima, era paradossalmente un modo per ristabilire un’unità più profonda.
Nel novembre del 1979 così riflette su questo tema: «L’altro giorno, a una persona che proclama la liberazione in un senso politico è stata posta questa domanda: “Per lei, qual è il significato della Chiesa?”. Ha risposto con queste parole scandalose: “Vi sono due Chiese, la Chiesa dei ricchi e la Chiesa dei poveri. Noi crediamo nella Chiesa dei poveri, ma non nella Chiesa dei ricchi”. Queste parole sono chiaramente una forma di demagogia, e io non ammetterò mai una divisione della Chiesa. C’è una sola Chiesa, la Chiesa che Cristo ha proclamato, la Chiesa alla quale noi dovremmo dare tutto il nostro cuore, perché coloro che si dicono cattolici e idolatrano la ricchezza e non hanno alcun desiderio di distaccarsi dalle loro ricchezze non sono cristiani. Non hanno compreso la chiamata del Signore e questa non è la Chiesa. I ricchi che si inginocchiano davanti alla ricchezza, anche se vanno a messa e compiono opere pie, e tuttavia non sono distaccati dalla ricchezza, non sono cristiani, ma idolatri. C’è una sola Chiesa, una Chiesa che adora il Dio vivente e conosce come attribuire un valore relativo ai beni di questo mondo».
Ciò che questo implica dovrebbe essere chiarissimo: è buona notizia per i poveri ciò che è buona notizia per i ricchi. I ricchi non ascolteranno la buona notizia se non la ascoltano come buona notizia per i poveri, come buona notizia per il loro prossimo. Si pensi un momento al fatto che molto spesso potremmo dare facilmente per scontato che ascoltare la buona notizia è sempre, realmente, ascoltare la buona notizia per noi. L’arcivescovo Romero ci sfida a riconoscere che ascoltare la buona notizia di Dio è ascoltare ciò che è buona notizia per ognuno: per il nostro vicino, per l’altro da noi, per lo straniero, per il diseredato, per colui che non condivide direttamente il nostro posto o il nostro punto di vista.
Se l’opzione per i poveri non è semplicemente un altro programma di parte, se non è una Chiesa dei poveri contrapposta a una Chiesa dei ricchi, questo che cosa potrebbe implicare? Qui possono aiutarci due riflessioni. Ritornando al punto dal quale siamo partiti, la Chiesa deve essere dove è Cristo. Una Chiesa unita è una Chiesa unita con Gesù Cristo, e non c’è alcuna speranza di unità al di fuori di questo. Ma essere uniti con Cristo è per definizione avere buone notizie per tutti. Non è forse questo che affermano ripetutamente i Vangeli e il resto del Nuovo Testamento? Non è forse questo il messaggio dell’angelo ai pastori che ricorderemo fra due settimane? E questo deve significare che buona notizia per i poveri è buona notizia per tutti. La buona notizia per i poveri promette la giustizia per tutti. Giustizia per i poveri e per i ricchi. Promette una novità vivificante per i ricchi e per i poveri.
E questo, a sua volta, suggerisce una seconda riflessione. L’arcivescovo Romero afferma più volte che i ricchi, nella misura in cui sono idolatri e non disposti a rinunciare ai loro privilegi, sono prigionieri; i ricchi hanno bisogno di essere liberati. La buona notizia per loro è ciò che li libera dalla paura, dall’ansia e dalla violenza che va di pari passo con la sfrenata brama del possesso. E non occorre un teologo per rivelarci che profonde disuguaglianze di ricchezza e di potere in una qualsiasi società sono una fonte perenne di paura, di ansia e di violenza. Alcuni anni fa è uscito quel sorprendente libro, intitolato The Spirit Level, di Richard Wilkinson e Kate Pickett, che molti di voi avranno letto. Il libro mostrava molto chiaramente che le società profondamente ineguali erano più ansiose e più infelici rispetto alle società nelle quali c’erano meno disuguaglianze fra gli abbienti e i non abbienti. Sembra proprio che il Vangelo cristiano sia sulla buona strada quando afferma che buona notizia per i poveri è buona notizia per tutti. La spirale della disuguaglianza è profondamente ostile al benessere umano.
Una povertà spirituale non è sufficiente
Una sicurezza vera e duratura in questo contesto non dipende dalla nostra illimitata capacità di difendere noi stessi e i nostri interessi, ma dipende da una sorta di spossessamento, come un mollare la presa; come il Signore dice nei Vangeli, noi salviamo la nostra vita perdendola. E, nel contesto della maggior parte di ciò che ha da dire l’arcivescovo Romero, questo significa che la relazione ideale fra le persone in una società è quella nella quale tu puoi con fiducia lasciare che altri siano responsabili di te, come tu con fiducia sei responsabile di loro. Se tu sai che gli altri perseguono con passione i tuoi interessi, come tu persegui con passione i loro, sarai sempre più intollerante riguardo ai modi in cui noi proteggiamo noi sessi, io proteggo me stesso, dal rischio dello scambio vivificante, della responsabilità fiduciosa, che è ciò che Dio si propone per la sua creatura umana, e anche, benché questo sia un altro tema, per il mondo attorno a noi.
Il Nuovo Testamento ci presenta il modello della società umana nella quale ognuno è responsabile di tutti e tutti sono responsabili di ognuno. Ci presenta una società nella quale le persone sono libere dalla brama del possesso in misura tale da sapere che non hanno bisogno di preoccuparsi di proteggere se stesse, perché sanno che il loro prossimo è lì per loro. È questa la visione che ha animato la vita e la morte dell’arcivescovo Romero.
Ecco alcune cose che egli scriveva al riguardo. Nell’ottobre del 1978: «Perché la Chiesa predica solo ai poveri? Perché noi parliamo di una Chiesa dei poveri? I ricchi non hanno l’anima? Sì, i ricchi hanno l’anima e noi li amiamo profondamente e desideriamo che si salvino e non siano prigionieri della loro propria idolatria. Chiediamo loro di diventare persone spirituali, di diventare poveri in spirito e di sperimentare l’angoscia dei bisognosi».
Nel luglio del 1979: «E ai ricchi io voglio dire anche che una povertà spirituale non è sufficiente, una sorta di desiderio ma senza effetto; a loro io dico: finché il loro desiderio della povertà evangelica non si incarna in opere e non assumono la causa dei poveri come se fosse la loro causa – come se essi fossero Cristo stesso – continueranno a essere chiamati i ricchi, “coloro che Dio disprezza”, perché confidano di più nel loro denaro».
Nel febbraio del 1980: «Che cos’altro fa la Chiesa? Annuncia la buona notizia ai poveri. Ma non in un senso demagogico, escludendo il resto. Al contrario, coloro che hanno ascoltato cattive notizie nei circoli profani, e hanno vissuto realtà peggiori, attraverso la Chiesa ascoltano la parola di Gesù sul regno di Dio che è vicino, che è nostro. Beati voi, i poveri, perché il regno di Dio è vostro. E questo significa anche che c’è una buona notizia da annunciare ai ricchi: diventino poveri per condividere con i poveri le cose buone del regno di Dio che appartiene ai poveri».
Imparando a mollare la presa, imparando a condividere e a essere responsabili per coloro che sono nel bisogno, i potenti e i ricchi sono evangelizzati e liberati. Essi ascoltano la buona notizia, sono liberati dalla loro prigione. Sono nutriti dagli affamati che essi servono.
La buona notizia è per tutti
Tutto questo per cercare di esprimere ciò che potrebbe significare l’affermazione secondo cui la Chiesa è unita se è unita con Cristo, il Cristo che è nei poveri e nei vulnerabili, e ha un’unica buona notizia per tutto il popolo di Dio. Un’unità dimostrata dal fatto che tutti sono responsabili di ognuno e ognuno di tutti. E per l’arcivescovo Romero, l’unità sacramentale della Chiesa, ad esempio una Chiesa riunita attorno all’altare, era al tempo stesso un segno visibile di questa assunzione di responsabilità e una sorgente di grazia e di forza per perseguire la realizzazione di questa visione per la società umana. Infatti tutti andiamo alla celebrazione eucaristica come persone affamate e bisognose e il nostro bisogno viene soddisfatto insieme, e nell’eucaristia viene data a tutti la libertà e la capacità di nutrirci gli uni gli altri e di assumere questa responsabilità gli uni per gli altri.
Nel marzo del 1979, Romero scrive: «Quando andiamo alla messa la domenica, realizziamo l’alleanza che Dio ha stabilito. Ogni messa domenicale è una realizzazione dell’alleanza che ci porta a rispettare l’alleanza e a sperimentare Dio come l’unico vero Dio. Davanti a quest’unico vero Dio dobbiamo distruggere tutti gli idoli che vogliono prendere il suo posto, idoli che vogliono mettere radici nel nostro cuore o nel cuore del nostro popolo: gli idoli del potere, del denaro e dalla lussuria, gli idoli del possedere cose che ci allontanano da Dio. Per noi la domenica deve essere un’occasione per rinnovare la nostra alleanza con Dio».
L’eucaristia è quindi al tempo stesso il segno e il mezzo dell’unità. L’eucaristia diventa al tempo stesso il segno della nostra speranza, il simbolo della nostra speranza, e il mezzo, la forza, attraverso il quale cresciamo in essa.
In quest’ampia visione del significato dell’unità della Chiesa – unità con Cristo, unità con Cristo nei vulnerabili, unità con la buona notizia di Cristo, unità nella nostra assunzione di responsabilità universale gli uni per gli altri – in questo contesto, che cosa possiamo dire riguardo al futuro ecumenico? Mons. Romero ebbe sorprendentemente poco da dire riguardo all’ecumenismo. Aveva molte altre cose a cui pensare! Ma in tutto questo vi sono reali implicazioni riguardo al modo in cui noi affrontiamo il compito ecumenico, riguardo alla nostra preghiera per l’unità della Chiesa e la nostra visione della stessa. Egli pone sull’ecumenismo una domanda che ci disturba e sfida profondamente: possiamo vedere in modo nuovo la nostra concezione dell’unità nel contesto dell’essere uniti con Cristo così come lui lo comprende? Cerchiamo solo l’unità delle Chiese, una sorta di fusione di vari tipi di vita istituzionale o cerchiamo l’unità con Cristo?
La visione ecumenica risulta molto diversa se cominciamo dicendo che ciò per cui preghiamo e ciò che speriamo è di essere uniti con Gesù Cristo. E attraverso di questo, e in questo, di essere uniti gli uni con gli altri. E di essere uniti con Cristo nella sua proclamazione e incarnazione della buona notizia per i poveri. Ovviamente, potete fraintendere questo. Potreste pensare, ad esempio, che l’ecumenismo inteso in questo modo significhi che le Chiese dovrebbero unirsi attorno a progetti sociali o politici, piuttosto che attorno a formule dottrinali. Ma questo è semplicemente sostituire un tipo di formalità con un’altra.
Apprendiamo di più al riguardo se guardiamo a quella che è realmente l’esperienza e la testimonianza della Chiesa in contesti di profonda ingiustizia, o di sofferenza prolungata o di terrore. Nella nostra epoca, nella quale abbiamo ogni giorno davanti agli occhi le chiare immagini di angosciosa sofferenza e ingiustizia e anche il terrore e l’ingiustizia patiti da un numero così elevato di nostri fratelli e sorelle cristiani in alcune parti del mondo – in Nigeria, in Kenya e nel Medio Oriente – dobbiamo riflettere su ciò che significa l’unità della Chiesa in Iraq o Colombia, in Nigeria o Sud Sudan. Riflettere su come le Chiese scoprono ciò che significa essere gli uni con gli altri mentre sono con i vulnerabili. Parlare con e per i vulnerabili. Essere l’unica voce di Cristo con e per i sofferenti. E dichiarando così che la voce di Cristo è la voce dei poveri, dire anche la parola del giudizio di Dio sulla tirannia, sull’ingiustizia e sulla brutalità.
Che cosa significa giustizia di Dio
Alla fine del mese di luglio di quest’anno ho avuto il privilegio di visitare il Sud Sudan per conto di Christian Aid. Nonostante tutte le debolezze, le lotte, i saltuari errori delle Chiese di Cristo in Sud Sudan, mentre ascoltavo un gruppo di pastori parlare della loro vocazione attorno a un tavolo a Giuba, mi rendevo perfettamente conto che essi scoprivano l’unità proprio nel senso inteso dall’arcivescovo Romero. Non un’unità costruita attorno a un programma, politico o dottrinale, ma un’unità caratterizzata dalla passione per il benessere di tutti coloro che soffrivano in un modo così atroce nella nuova guerra civile scoppiata nel Sud Sudan e costata la vita a migliaia e migliaia di persone negli ultimi dodici mesi. Essi erano profondamente consapevoli della loro responsabilità. Sapevano che nessun altro gruppo avrebbe assunto la responsabilità dei senza voce e dei vulnerabili nel Sud Sudan. Nonostante tutti i reciproci sospetti e le incertezze riguardo al modo in cui doveva fondersi la loro testimonianza ecclesiale, essi sapevano che non avevano altra alternativa che parlare insieme, essere uniti da quella passione per i vulnerabili. E sapevano che questo era ciò che dovevano dire nei negoziati giunti a un punto morto e terribilmente sterili fra le fazioni in guerra nel Sud Sudan. Essi assumevano la responsabilità. Parlavano in una cultura politica profondamente corrotta, violenta. Riconoscevano di aver scoperto un’unità nell’essere dove è Cristo, con le persone vulnerabili di Cristo: dare voce a quell’unica voce di Cristo sofferente e di Cristo giudice.
Possiamo trovare drammatici esempi di questo in molte parti del mondo. Non solo in Sud Sudan, ma anche, come ho già detto, in varie parti del Medio Oriente e in molte altre parti in Africa. Conosciamo anche modi molto più prosaici nelle nostre città; sappiamo che parlare con una sola voce insieme per e con i vulnerabili è una delle cose che rinnovano la visione cristiana. In questa città, come nella mia città, l’attività congiunta delle Chiese nei banchi alimentari è un esempio, piccolo ma vitale, della scoperta dell’unità ascoltando le persone più bisognose, più a rischio, e parlando insieme a loro.
Siamo molto, molto lontani nel nostro contesto dal rischio che corre un Romero, o anche dal rischio che corrono i pastori del Sud Sudan. Noi possiamo rischiare al massimo alcuni editoriali sfavorevoli nei giornali e l’occasionale commento sprezzante in Parlamento. Non molto se confrontato al martirio! Ma il punto positivo rimane: il punto positivo è che la scoperta di Cristo che chiama e grida, di Cristo che fa sua la voce dei senza voce. Nella scoperta di questo Cristo noi scopriamo l’unità. Scopriamo dove dobbiamo essere, come siamo uniti con Cristo, che cosa questo significa per noi in pratica.
E in qualsiasi contesto riflettiamo su questo, dobbiamo sempre ricordare che ciò di cui parliamo è la giustizia per tutti. Non parliamo di concedere un privilegio ai non privilegiati, in modo che un non privilegiato diventi qualcun altro. Non parliamo di capovolgere la clessidra in modo che qualcun altro sia in cima. Parliamo di quella profonda costosa reciprocità, che io chiamo la fiducia che altri sono lì per te, che tu sei lì per loro. E questo ci ricorda che il termine «giustizia» nella Bibbia significa più del semplice assicurarsi che ognuno abbia ciò di cui ha bisogno, che è una buona definizione classica ma una definizione biblica piuttosto debole. La giustizia nella Bibbia non riguarda il capovolgimento o la punizione, riguarda la relazione sana e il corretto allineamento. Essere giusti è essere in sintonia con i disegni di Dio, essere rivolti verso di essi. È essere ripristinati in quella pace operosa che fa sempre coppia con la giustizia nella Scrittura.
Giustizia per tutti è una questione di relazione e quindi questione di quella reciproca responsabilità di cui abbiamo parlato. Giustizia per tutti è il giusto allineamento di tutti, in modo che ognuno sia allineato, diretto lungo la linea della volontà di Dio e la volontà di Dio è sempre per il bene del prossimo. Perciò quando i ricchi o i potenti rifiutano la giustizia ai poveri, ciò che rifiutano è la vita per loro stessi. Coloro che cercano di proteggere sé stessi contro il diritto e l’appello dei vulnerabili dicono di fatto no alla vita che porta in sé una relazione sana e un corretto allineamento. E questo potrebbe suggerire anche a noi di correre il rischio di rifiutare la vita quando come comunità cristiane rifiutiamo le opportunità di unità che si presentano.
E che cosa significa unità
Per questo io non considero mons. Romero semplicemente un maestro e un martire che testimonia la giustizia per i poveri, ma lo considero un maestro che ha qualcosa di fondamentale, vitale e vivificante da dirci su ciò e su chi noi siamo come Chiesa, come Chiese che cercano di essere unite più pienamente. La domanda che egli ci pone è questa: se noi siamo veramente uniti solo quando siamo più profondamente uniti con Cristo, allora c’è un solo luogo da cui partire nel nostro cammino verso l’unità ed è imparare a essere uniti con il grido, il bisogno e l’agenda di coloro che sono maggiormente a rischio, un solo luogo dove è appropriato andare e condividere questo rischio.
Non c’è nulla in tutto questo che possa indurre a pensare che noi dovremmo semplicemente smantellare tutti i nostri interessi e tutte le nostre preoccupazioni in campo dottrinale, sacramentale e disciplinare e andare alla ricerca di buone cause da sostenere insieme. Infatti nulla di tutto questo avrebbe un senso, se i nostri impegni dottrinali e sacramentali non fossero ciò che sono. Il Cristo che è con i poveri e nei poveri non è semplicemente uno straordinario maestro umano, ma è il Figlio di Dio, il Signore onnipotente, che si riveste della nostra povertà in modo che noi possiamo essere rivestiti della sua ricchezza divina. Se non crediamo questo, tutta questa faccenda dell’essere uniti con lui nei poveri non avrebbe alcun senso. E se Gesù Cristo fosse solo un uomo buono grande e interessante, allora l’eucaristia sarebbe priva di significato e sarebbe tutt’al più una commemorazione vagamente melanconica di una delle innumerevoli tragedie della storia, nelle quali uomini grandi e emozionanti tendono a essere uccisi in modo sgradevole.
L’eucaristia è il luogo nel quale ci viene offerta la vera vita del Figlio di Dio incarnato; l’eucaristia è il luogo nel quale si rinnova, approfondisce e stabilisce su nuovi fondamenti la nostra responsabilità degli uni verso gli altri. Questo è anche ciò che dà senso agli impegni che noi introduciamo nei nostri coinvolgimenti nel mondo. Questi impegni sono il fondamento dell’intera visione ed essi contano teologicamente proprio perché sono ciò che fonda e ispira la visione della solidarietà con i poveri.
Ma in qualche modo, il punto è questo: dobbiamo riscoprire molti dei nostri impegni teologici e delle nostre preoccupazioni teologiche per così dire facendo una deviazione, passando attraverso questa esperienza di identificazione con i poveri e di solidarietà con i bisognosi. Andare in giro e scoprire tutta la valenza di queste formule dottrinali e pratiche sacramentali è ancorarci più profondamente, più sicuramente al Cristo che si è fatto povero per noi, in modo che possiamo conoscere tutti la sua giustizia e la sua ricchezza.
Nelle nostre discussioni ecumeniche sulle dottrine, sui sacramenti e sulla disciplina, questo fa parte della strada che dobbiamo percorrere. Se diciamo che questa o quella convinzione è importante, dobbiamo scoprire perché potrebbe essere importante precisamente nel contesto nel quale impariamo a essere uniti con Cristo e nel quale impariamo a essere dove è Cristo. Non semplicemente per ripetere un pregiudizio ereditato, un’abitudine ereditata, non semplicemente per negoziare sul piano formale degli slogan, ma per cercare insieme i modi in cui la nostra convinzione e impegno sul piano teologico possono essere la forza motrice per condurci più vicino a dove è Cristo e a dire ciò che dice Cristo. Riguardo a ogni pratica, riguardo a ogni dottrina, dobbiamo chiederci se essa permette o ostacola un’unità con Cristo in coloro che non hanno voce e non hanno potere. Nelle nostre discussioni sull’unità non dobbiamo mai perdere di vista questo aspetto. Le nostre discussioni su diverse accentuazioni teologiche e discipline devono chiedersi come questo o quell’aspetto della nostra teologia serve e chiarisce la nostra risposta alla chiamata a essere con Cristo in solidarietà con i vulnerabili.
Cristo è già ed eternamente uno
Infine, questo può aiutarci a comprendere un po’ meglio ciò che significa affermare contemporaneamente che Dio ci chiama a lottare contro la povertà e ci chiama alla povertà di spirito. Nel febbraio del 1980, il vescovo Romero scrive: «La povertà è una spiritualità, un atteggiamento cristiano e l’apertura dell’anima a Dio. È per questo che Puebla ha affermato che i poveri sono la speranza dell’America Latina. Essi sono la speranza perché sono quelli più aperti a ricevere i doni di Dio. Così Gesù dice con grande emozione: beati voi che siete poveri, perché il regno di Dio è vostro. Voi siete i più capaci di comprendere ciò che non viene compreso da coloro che sono in ginocchio davanti ai falsi idoli e confidano in essi. Voi che non avete questi idoli, voi che non riponete la vostra fiducia in essi perché non avete denaro o potere, voi che siete privi di tutto sapete che più poveri siete più possedete il regno di Dio, a patto che viviate veramente questa spiritualità. La povertà che Gesù Cristo qui santifica non è semplicemente una povertà materiale, non è semplicemente non avere nulla – questo è un male. È una povertà che risveglia la coscienza, una povertà che accetta la croce e il sacrificio, ma non per mera acquiescenza, ma perché sa che questa è la volontà di Dio. Perciò non diventiamo santi in base alla misura in cui facciamo della povertà una componente della nostra spiritualità e nella misura in cui ci affidiamo al Signore e dimostriamo la nostra apertura a Dio».
Purtroppo parlare di una vocazione alla povertà spirituale è stato spesso nella Chiesa un elogio della passività e dell’accettazione dello status quo. Romero porta il discorso su un livello molto diverso. Essere spiritualmente poveri è essere liberati dall’idolatria. E notate come ritorna spesso sul tema dell’idolatria. Essere spiritualmente poveri è essere liberi dall’idolatria, è non avere altro da servire e adorare che il vero Dio. Quando, per situazione o per scelta, siamo giunti al punto nel quale non vi sono più idoli, allora comincia la trasformazione. Allora si libera in noi qualcosa che ci rende capaci, come mai prima di allora, di essere responsabili gli uni degli altri, di essere lì per il nostro prossimo.
Così il futuro ecumenico alla luce della vita e della morte, della preghiera e della testimonianza dell’arcivescovo Romero diventa un futuro nel quale tutte le nostre comunità cristiane s’impegnano più profondamente insieme a sfidare le varie ideologie che la loro propria vita ecclesiale e la loro propria vita sociale produrranno. Diventa un futuro nel quale noi cerchiamo di aiutarci a vicenda ad avanzare verso l’unità con Gesù Cristo, con la fiducia sostenuta dalla preghiera che è in quel momento che cominciamo a camminare gli uni verso gli altri. L’arcivescovo Romero credeva profondamente che c’è, come abbiamo visto, un’unica Chiesa; una Chiesa di coloro che sono veramente dove è Cristo, che parlano veramente con la sua voce in quella situazione e al di fuori di essa. E quando noi tendiamo a essere ansiosi o cinici, o persino disperati, riguardo alla possibilità che le Chiese possano mai unirsi, giova non poco ricordare che Cristo è già e eternamente uno, che il suo corpo è uno, che la sua buona notizia è una e che noi stiamo avanzando barcollando verso ciò che è già reale in lui.
Infatti, come riconoscerebbe ogni santo e martire, ciò che veramente importa nella Chiesa non è ciò che noi realizziamo, ma ciò che Dio ha donato, dona e donerà. E noi ringraziamo Dio che ha donato, dona e donerà una grande grazia attraverso la vita e la morte di Oscar Romero.
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